mercoledì 2 giugno 2010

Panico!


L’immagine forse più adatta per parlare di questi tempi e di ciò che sta avvenendo in Italia è un’immagine vecchia, che risale ai primi tempi della famigerata crisi che un paio d’anni fa sconvolse il pianeta. Quella degli impiegati di Lehman Brothers che mettono tutto negli scatoloni e se ne vanno a casa. O ancora, per citare un’immagine di crisi più tradizionale, le persone in fila a ritirare i propri risparmi da banche sull’orlo del crack. Non che lo Stato italiano sia sull’orlo del fallimento, e di chapter 11 non se ne vede manco l’ombra, ma dopo 2 anni di battute sulla crisi psicologica l’onda lunga, e poco psicologica, sta arrivando, e il terrore che ci sommerga ha portato dalle prime inversioni ad U della maggioranza fino alle sempre più furiose corse degli ultimi minuti e alla manovra da 24 miliardi che dovrebbe portarci ad evitare di fare la fine della Grecia, o, più plausibilmente, ad uniformarci ai nuovi standard di rigore contabile imposti dalla Germania, anche se “Grecia” è la parola più ripetuta a giustificare i sacrifici che ci aspettano, a dire “Visto, bisogna darsi da fare, ché sennò ci tocca fallire”.

Ovviamente se hai due anni di tempo per prendere provvedimenti per ripianare le finanze pubbliche, con un debito pubblico al 110,5%, e ti perdi dietro minchiate sulla crisi psicologica e le intercettazioni, nessuno si aspetta che tu faccia poi miracoli operando in maniera lungimirante ed efficiente. Tuttavia il pressapochismo e l’improvvisazione (da qualcuno ricondotti peraltro a lotte di potere all’interno della maggioranza in ottica di successione a Berlusconi) con cui è stata compiuta questa manovra lasciano stupefatto persino chi non aveva dubbi sulla capacità di operare a casaccio della maggioranza. Un piano dunque che raggiunge perfettamente lo scopo - tagliare, tagliare, tagliare – ma che nel conseguirlo mostra una sostanziale incapacità di seguire un piano razionale. Un piano dettato dal panico, in cui si accumulano proposte assurde (iniziare la scuola a ottobre) e dimostrazioni dell’inottemperanza ad ogni altro criterio che non sia il risparmio, a cominciare dall’idea principale: il blocco degli aumenti salariali dei dipendenti pubblici, ritenuti dei privilegiati perché negli ultimi anni hanno visto aumentati gli stipendi a fronte del fermo di tutti gli altri lavoratori dipendenti. Detta così la questione sembrerebbe giusta ed equa, ma basta ripensare al fatto che i dipendenti pubblici hanno una media di stipendio decisamente bassa, al fatto che quegli aumenti non sono altro che adeguamenti che tengono conto dell’aumento dei prezzi, al fatto che i dipendenti pubblici siano gli unici, o quasi, a non poter praticare lo sport nazionale (evadere) e tutto rientra nella giusta ottica. Un sacrificio imposto a chi già di suo paga per gli altri il prezzo dello Stato, nessun sacrificio imposto a chi vive, e continuerà a vivere, senza pagare le tasse. Un’idea d’altronde ben giustificata dal fatto che i dipendenti pubblici sono una fetta di elettorato certo più vicina all’opposizione mentre gli autonomi e gli imprenditori sono molto più legati a Berlusconi, Padania, Famiglia. Certo, è vero che in un’ottica emergenziale l’evasione non si recupera tutta d’un tratto, ma ciò non giustifica la sonnolenza dei primi due anni di governo, né l’assenza dai disegni del governo di misure in proposito a lunga gittata. Eppure Draghi stesso ha detto che responsabile della macelleria sociale è l’evasione.

Di altre idee, come quelle concernenti il taglio delle province o degli enti inutili, non vi sarà a quanto pare traccia nella versione definitiva. Idee che apparivano certo in linea teorica discretamente sensate, ma che erano state anch’esse applicate grossolanamente e secondo criteri ben poco trasparenti. Viene da chiedersi cosa ci sarebbe stato a fare un ministero dei beni culturali se non lo si fosse consultato in merito alle strutture, spesso importanti, che sarebbero finite sotto la scure di Tremonti. Viene da chiedersi in base a quale criterio (certo non efficientistico, probabilmente politico) sarebbe stato effettuato il taglio delle province, ma su questo ha già largamente scritto Emanuele. Ciò che preme qui sottolineare comunque è il fatto che, oggi come ieri, nessuna attenzione il governo ponga all’equità o a misure lungimiranti (tenendo conto anche del fatto che tra i tanti tagli da effettuare parecchi andavano ad istituzioni scientifiche e di ricerca, alcune irrilevanti, altre importantissime, buttate in un unico calderone). In questa direzione anche l’ennesimo condono –cioè la sanatoria catastale degli immobili fantasma censiti qualche anno fa.
Sul fronte risparmio da segnalarsi ancora la geniale idea di sottrarre una quantità importantissima di fondi ai comuni, già stritolati dalla perdita degli introiti dell’ICI (una tassa la cui reintroduzione sarebbe invece estremamente sensata, rispondendo peraltro perfettamente a criteri di natura equitativa) e dal patto di stabilità, e alle regioni. Quantità tale da far gridare Formigoni alla morte del federalismo, nel silenzio di coloro che invece sarebbero scesi in guerra per la provincia di Bergamo.

Se dunque appare abbastanza sensato ridiscutere e tagliare la spesa pubblica certo la manovra finanziaria appare, non solo limitatamente ai profili sopra brevemente accennati, decisamente poco condivisibile. Poco condivisibile sembra forse agli stessi partiti di maggioranza che hanno parzialmente celato i veri significati della manovra sotto lo specchietto delle allodole dell’etichetta di manovra anti-sprechi, contro gli statali fannulloni e i privilegi della politica (il famoso aperitivo del taglio degli stipendi ai parlamentari).

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