venerdì 24 settembre 2010

Brevi considerazioni alla riapertura dell'anno scolastico

Una vecchia carcassa rovinata di nave, un vecchio relitto in balia e sotto l’attacco di forze che ne distruggono anche il poco che restava in qualche modo valido. Così appare la scuola italiana alla riapertura dell’anno scolastico, riapertura accompagnata dalle ormai consuete diatribe sullo scadimento dei tempi e dei costumi, sulle scadenti, scadentissime performance degli studenti italiani, cui si aggiungono quest’anno le polemiche per i licenziamenti di massa dei precari della scuola. Aggiungiamoci anche che le sorti della scuola sono un argomento in qualche modo romantico, visto che tutti ci sono passati, tutti la ricordano con un minimo di nostalgia, e moltissimi ne sono direttamente coinvolti, e si potrà capire come l’impatto degli interventi sulla scuola abbia un raggio vastissimo e apra ad un dibattito frammentato e forzatamente generico e qualunquista. Ma anche in questo qualunquismo, come in tanti altri, si ritrovano frammenti di verità.
Innanzitutto sui finanziamenti alla scuola. Troppo, troppo pochi. Così pochi che le scuole private divengono sempre più un’opzione importante mentre il pubblico giace abbandonato nell’incuria, come d’altronde avviene in tanti altri settori vittime di privatizzazioni occulte. La scuola pubblica giace massacrata dai tagli, che non sono solo quelli dei precari, ambito in cui i tagli costituiscono, oltre che un gravissimo problema educativo, un problema del mondo del lavoro e dei suoi meccanismi. Il problema è il mondo che gira intorno agli insegnanti, che vengono a trovarsi in lotta contro strutture inadeguate, fondi inadeguati, burocrazie inadeguate, programmi inadeguati, contro una generale mancanza di consapevolezza del ruolo della scuola in una società che ha dimenticato non il funzionamento ma la stessa esistenza di quegli ascensori sociali di cui la scuola dovrebbe essere la prima promotrice. Si inserisce in questo contesto la dicotomia concernente gli stessi insegnanti, concepiti da alcuni come una categoria di fannulloni che fa tre mesi di vacanze, da altri come degli eroi dei tempi moderni. Probabilmente nessuna di queste due retoriche è del tutto vera, come d’altronde nessuna è del tutto falsa. E’ certo innegabile che essi siano tendenzialmente sottopagati e demotivati dalle stesse difficoltà cui vanno incontro, difficoltà cui parte della categoria risponde con ammirevole dedizione e spirito di sacrificio, difficoltà cui l’altra parte si arrende, né in questo aiutano l’età media o l’assenza di una qualsiasi forma di meritocrazia. In realtà pare che su questo batta forte il martello del ministro Gelmini, che intende sopperire ai tagli con la valutazione degli insegnanti. Eppure questo appare uno strumento quantomeno inutile. Da un lato sembra quantomeno ingenuo pensare che premiare i migliori possa rendere migliore un sistema del tutto inefficiente a causa di ben altri problemi, a partire dalle classi troppo numerose e dalle strutture fatiscenti. Dall’altro il problema non è un problema italiano: è un problema, è una questione, ancora una volta, eminentemente meridionale. I dati dei test, a partire da quello OCSE-PISA, sono eloquenti: mentre il centro-nord si colloca su livelli medi, non tra i migliori in Europa ma nemmeno tra i peggiori, a sud di Roma i risultati hanno un che di ignominioso. E tale ignominia deriva dal contesto socio-culturale che si vive al sud, di livello estremamente più basso, perché più povero di possibilità e arretrato. Non che al sud manchino situazioni di eccellenza, ma sono molto di più le zone di frontiera in cui gli studenti arrancano, figli come sono di un humus estremamente meno ricco, provenienti da famiglie poco abbienti, che non possono dotarli di strumenti e che forse non sono nemmeno propense per mentalità a motivarli. Questi ragazzi molto spesso vanno a finire nelle fila dei dispersi scolastici, e l’esito ulteriore è la sempre più ingrossata massa di giovani che non studiano, non lavorano, non cercano lavoro, se non il nero o la criminalità. In questi contesti i non radi eroismi di insegnanti spesso giovani e motivati servono a poco o nulla, mentre l’incuria la fa da padrona. In questi contesti la scuola pubblica abdica al suo ruolo primario, quello di livella (verso l’alto ovviamente) delle situazioni sociali, quello di sostrato comune che dovrebbe consentire a tutti di partire con le stesse opportunità. Al sud la scuola ha una funzione ancor più fondamentale, e così l’insegnante ora abbandonato a se stesso (quando non attaccato). È spesso alternativa e possibilità unica di riscossa. Forse sarebbe opportuno ripartire da qui, da una scuola che serva da trampolino e da ancora per migliaia di persone e per dei territori che rappresentano, a conti fatti, un buon terzo d’Italia.

sabato 10 luglio 2010

Un Abete con le radici solidamente piantate sulla poltrona

Se è vero che la nazionale di calcio è una delle poche cose che unisce gli italiani e li fa sentire insieme sotto un’unica bandiera (con buona pace di radio padania che sosteneva il Paraguay, chissà se avrebbe fatto lo stesso qualora avessimo giocato contro Romania o Marocco) si può a buona ragione dire che l’eliminazione dell’Italia dai mondiali che stanno volgendo al termine è stato un avvenimento in qualche modo traumatico, Dopo essere stati sul tetti del mondo quattro anni fa siamo stati sbattuti fuori nel primo girone da una squadra di semiprofessionisti come la Nuova Zelanda (imperdibile la telecronaca del sorteggio mondiale con un Caressa che si sbellicava al solo pensiero) e da due compagini certo non irresistibili quali Slovacchia e Paraguay. Ma di chi è la responsabilità di un disastro tanto immane (l’ultima volta che non avevamo passato il girone era nel 1974)? Le maggiori responsabilità si sono appuntate ovviamente sul commissario tecnico, che si è assunto tutte le responsabilità (suona strano che suoni strano farlo notare) pur avendo indubbiamente alcune esimenti. Senza voler giustificare gli errori commessi sul campo, nella preparazione e nella gestione delle partite, non si può non notare come il calcio italiano (e lo sport italiano in generale, a parere dello scrivente) non stia attraversando un momento roseo, soprattutto a livello tecnico e di produzione di talenti. Si fatica a ricordare una nazionale dalla qualità così bassa e in generale una così grande assenza di giocatori di livello assoluto nati entro i patrii confini. Sarà un caso se la squadra campione negli ultimi quattro anni d’Italia e quest’anno anche d’Europa conta i suoi italiani sulle dita di una mano? Bisogna forse risalire agli anni ’50 per trovare un momento altrettanto nero. Ma è solo un caso questa situazione di crisi, ed è una situazione che coinvolge solo la nazionale, o c’è dell’altro? Per saperlo basta scuotere leggermente i rami più alti dell’albero, e venire ad analizzare le responsabilità di quelli che sono i vertici più alti del nostro calcio.

Scorrere la carriera ed il cursus honorum dell’attuale presidente della FIGC Giancarlo Abete è un’emozione che non si interrompe. Deputato dc per tre legislature dal 1979 (a 29 anni, poi si lamentano della gerontocrazia…) al 1992, da circa 20 anni sul ponte di comando della stessa FIGC, ha rivestito numerosi incarichi anche in altre associazioni, tra cui CONFINDUSTRIA. Abete, riconfermato nonostante il fallimento mondiale in seguito al Consiglio Federale del 2 luglio scorso (mentre in Francia, in seguito ad identico fallimento, rotolavano teste), è asceso alla presidenza della Federazione nel post-calciopoli, e certo non si è distinto per i grandi risultati e per la grande efficienza organizzativa. Glissando sulla gestione discutibile (per usare un eufemismo) della stessa calciopoli (o moggiopoli per gli appassionati del fantasy) e della giustizia sportiva in genere, non si può non ricordare come l’Italia sia stata umiliata avendo fallito per due volte nel presentare la propria candidatura per l’organizzazione dei Campionati Europei di Calcio: nella prima occasione battuta da Polonia e Ucraina (Nazioni non di primissimo piano né quanto a tradizione calcistica, né sul piano economico-organizzativo, tanto che più volte si è paventato il rischio che i lavori non finiscano in tempo), la seconda poche settimane fa quando la nostra candidatura per gli Europei del 2016 ha preso meno voti di quelle di Francia (che si è aggiudicata l’organizzazione) e Turchia. E questo non per fantomatici complotti massonici e anti-italiani ma per i seri problemi del nostro movimento, a partire da quelli di ordine pubblico per finire alle carenze strutturali (peraltro in Italia non brilliamo certo per trasparenza e abilità di gestione di affari edilizi, ma questa è un’altra storia, che però non dubitiamo sia stata tenuta in considerazione nel momento di fare la scelta). Aldilà di queste mirabolanti imprese anche la gestione della preparazione del mondiale sudafricano non ha brillato, cominciando dalla scelta di Lippi per rimpiazzare un Donadoni scaricato e maltrattato ben oltre i suoi demeriti e finendo con la geniale idea di annunciare già prima della partenza che Lippi se ne sarebbe andato e chi sarebbe stato il suo successore, cosa che non ha certo contribuito a motivare i giocatori (di cui peraltro non si può dire che siano scesi in campo con il coltello fra i denti e i classici occhi di tigre), così come la stupidissima polemica sui premi. Cosa resta dunque della gestione Abete? Un movimento calcistico in affanno, un po’ per motivi di concorrenza, un po’ per motivi di crisi del sistema Italia in genere, molto per motivi di gestione interna: società poco competitive (salvo rade eccezioni) fuori dai confini nazionali, come simboleggiato dall’ormai prossima perdita del terzo posto nel ranking fifa, giocatori di livello inferiore rispetto anche a pochi anni fa (basti a dimostrarlo il dominio avutosi fino al 2004 a livello di under 21 e la crisi odierna, dovuta anche a scelte discutibili a livello di coaching staff), un campionato decisamente in affanno a livello di spettacolo e visibilità fuori dai nostri confini, una inesistente politica di tutela dei vivai cui si tenta di porre rimedi inutili o dannosi. In questo senso l’ultima genialata è stata la riduzione del numero di stranieri extracomunitari ingaggiabili per stagione, cambiamento di regolamento avvenuto a mercato in corso, regola che nel tutelare i nostri giocatori fa acqua da tutte le parti da un lato perché restano ingaggiabili stranieri comunitari e extracomunitari con passaporto comunitario (categoria quest’ultima molto più ampia di quanto si potrebbe pensare) dall’altro perché misure simili raramente hanno sortito effetti e difficilmente si può dire che il problema del calcio italiano sia l’eccesso di stranieri. La regola è invece perfetta per abbassare il livello delle nostre squadre di club e la competitività del campionato, ed in questo senso è anzi controproducente, dato che se il livello a cui giocano i nostri giocatori è più basso darà più difficile che si impongano all’estero. Un capolavoro insomma.

In definitiva è vero anche che alcuni di questi problemi potrebbero essere visti, e in parte lo sono, come questioni congiunturali. È altrettanto vero però che il calcio italiano sembra soffrire degli stessi problemi del sistema Italia in genere, partendo dal poco spazio lasciato ai giovani e finendo ad una crescente incapacità di rinnovarsi e innovare per essere competitivo, e che una governance che lascia parecchi dubbi e l’inamovibilità degli organi di vertice difficilmente consentiranno particolari cambiamenti di rotta.

domenica 4 luglio 2010

Si al bavaglio!

Dedicato a tutti quelli che Berlusconi non vince per lo strapotere mediatico e che delle televisioni non se ne fa niente perchè certe cose ormai le sanno tutti, dedicato a tutti quelli che la rai è di sinistra e comunque mantiene sempre una sua imparzialità, dedicato a tutti quelli che credevano fosse stato già toccato il fondo:

Rai due sul consigliere provinciale "dell'opposizione" sorpreso a "fare come Marrazzo":



Il direttore di Studio Aperto "riflette" sui casi Dell'Utri e Tartaglia e ci esprime i suoi dubbi:



Il tg1 sulle intercettazioni, 1:



e 2:

lunedì 21 giugno 2010

Quando voi stavate sugli alberi, noi eravamo già froci (cit.)

Tempi di mondiali, tempi di classifiche e di campanilismi. E nella scuola il campanilismo, negli ultimi tempi, è di rigore.

Meno intelligenti al Sud!” recita provocatoriamente (?) Richard Lynn, professore emerito di Psicologia presso l’Università dell’Ulster in un articolo sulla rivista accademica “Intelligence”. La tesi del Prof. Lynn è basata sui test PISA (Program for International Student Assessment), che rilevano dati relativi a diversi tipi di apprendimento da parte degli studenti all'età di quindici anni. L’interpretazione di questi test si basa sulla classificazione dei risultati in Matematica, Scienze e Lettura nei vari paesi dell’OCSE. L’Italia, complessivamente, si colloca in posizioni piuttosto deludenti e rimane sopra soltanto il Messico, la Grecia e la Turchia per tutte le categorie. Nell’ultima edizione è stata data la possibilità di partecipare anche ad alcune sub-categorie (Toscana, Trento e Bolzano tra le altre). Questo ha fatto sì che fossero possibili, per la prima volta, dei confronti fra le aree del paese. I risultati sembrano davvero impietosi per il Centro ed il Sud Italia: la differenza tra le province autonome ed il Sud (con le Isole) è di quasi 100 punti, distanza simile a quella che esiste tra Danimarca e Turchia. Da questo - e solo da questo - il “buon” Lynn, conclude che le differenze dei risultati scolastici sono dovute al “più basso quoziente intellettivo nell'Italia meridionale” a sua volta causato “dalla mescolanza delle persone di queste regioni con popolazioni del Vicino Oriente e del Nord Africa che sono caratterizzate da un quoziente intellettivo più basso”.

Senza voler entrare nel merito della questione genetica che appare, comunque, del tutto sterile, oltre che scientificamente poco fondata, la questione rimane comunque essenziale e ancora poco esplorata. Partiamo da qui. Gli studenti del Nord sono più bravi. Ma, a meno di credere nella motivazione genetica, evidentemente la loro migliore riuscita dipende da alcune variabili esogene che proviamo a raccontare.

L'allievo impara dal maestro. Ovviamente una buona riuscita nei test e a scuola dipende dall bravura degli insegnanti in classe. Questi, ad oggi e forse ancora per poco, sono in parte del Sud. Quanti siano i docenti meridionali di ruolo che attualmente insegnano al Nord non si sa con precisione e la stima è difficile. Ma dalle ultime pubblicazioni sulle graduatorie dei precari si nota che 29 mila docenti "residenti in province meridionali" hanno optato per graduatorie provinciali di città "del Centro-Nord", che contano 70 mila precari. Di contro, gli iscritti in graduatorie del Sud residenti in province settentrionali sono appena 412 su 230 mila posti da supplenti. Senza i 29 mila "terroni" alla ricerca di un posto di lavoro, anche precario, al Centro-Nord rimarrebbero appena 41 mila docenti abilitati all'insegnamento per coprire i posti momentaneamente liberi per assenza del titolare. L'obiezione spesso fornita del ritorno prematuro al Sud degli insegnanti meridionali con cattedra nel Nord Italia è stata di recente sfatata, con buona pace dei ministri Gelmini (che ha poi smentito) e Bossi. Secondo i dati della Fondazione Agnelli, nel 2009 sono stati solo 692 gli insegnanti che dalle scuole del Nord Ovest e del Nord Est si sono spostati in quelle meridionali: si tratta dello 0,5% rispetto al totale. Ci si chiede, dunque, come farebbe la scuola nelle regioni settentrionali senza i docenti del Sud Italia. Un altro mito sfatato.

La legge è uguale per tutti. E i diritti? E' davvero possibile pensare che gli studenti italiani abbiano tutti davvero le stesse opportunità? Non si tratta tanto di discutere del contributo che ogni famiglia è in grado fornire ai propri figli per attività particolarmente costose oppure “superflue”, quanto soprattutto della differenza esistente nel Paese delle aspettative sui diritti essenziali riservati agli studenti e alle rispettive famiglie. Quando negli ultimi tempi si è parlato (e si sono attuati) di alcuni tagli alla scuola come quello del “tempo pieno” ci sono state, infatti, due diverse reazioni: alcuni (al Nord?) si sono sentiti privati di un diritto acquisito, anzi scontato, altri (al Sud?) sono venuti a conoscenza dell'esistenza stessa del servizio. Di fronte a questo imbarazzante confronto e scompenso, è difficile e forse superfluo chiedersi se sia più grave il fatto che lo Stato non sia in grado di garantire condizioni analoghe a tutti i cittadini o la disillusione mista a resa degli abitanti delle regioni del Mezzogiorno che non hanno più la forza di combattere alcuna battaglia sociale, sfiniti come sono da problemi più “immediati”.

Peccato che considerare questo problema un argomento di secondo piano sia una visione miope - per le intelligenze ed il capitale umano non pienamente valorizzati - oltre che bieca - per le differenze nelle opportunità concesse alle nuove generazioni. E questo oltre ogni campanilismo generazionale o regionale. Nonostante il Mondiale.


lunedì 14 giugno 2010

e poi c’era Mengele che incartava la cioccolata…

Probabilmente tutti hanno notato come l’agire efficientista del governo del fare in tempi di crisi segua strade dettate dal vento del nord, dalla pragmatica abilità del lombardo Tremonti e del veneziano Brunetta nel far quadrare i conti, nel tagliare i rami secchi e nel cancellare i segni degli sperperi assistenzialistici, nella lotta ai malcostumi del sud. Un esempio per tutti? Tremonti cita il caso dei falsi invalidi, una vera piaga che le amministrazioni meridionali lasciano correre per motivi clientelari, una cattiva erba da estirpare immediatamente. E subito, come uomo di parola, si mette al lavoro per risolvere il problema nel modo più adeguato possibile al governo che rappresenta. Cioè, mi si scusi la finezza linguistica, ad minchiam. L’esito tragicomico dell’opera del governo, lungi dal prendersela con gli invalidi finti, preferisce penalizzare quelli veri, ché ormai nel prendersela con i deboli il ministero delle finanze è campione, così come nel fermare le sue misure là dove iniziano gli interessi di parte (come nel caso delle province, che nel frattempo continuano a sparire e ricomparire con la frequenza della pioggia pisana).

Per cui, se riuscire a trovare delle misure efficaci contro i finti invalidi appare aleatorio, oltre che contrario agli interessi clientelari di cui sopra, quali saranno i rami secchi da tagliare, quali saranno i privilegiati che dovranno dire addio alle loro fortune e trovarsi finalmente un’attività produttiva, che dovranno insomma darsi da fare?
I down ad esempio! Con l’elevarsi dell’invalidità necessaria per avere accesso all’assegno di assistenza dal 74% all’85% gran parte di questi “finti invalidi” vedrà cancellato il contributo da 256 euro cui aveva diritto (diritto limitato peraltro a coloro che fossero, oltre che malati, anche disoccupati, e avessero un reddito inferiore ai 4408 euro annui). Poiché evidentemente il risparmio non bastava, al ministero si è quindi provveduto a rigirare la ruota ed è uscito il Jolly, numero 66. Come la percentuale di invalidità dei cittadini che a causa di errori medici hanno contratto, a seguito di trasfusioni di sangue infetto, epatiti ed altre gravi malattie. Lo Stato, che di questi errori è indiretto responsabile, riporta i valori degli indennizzi al 1992 e incide retroattivamente sulla prescrizione delle domande (ulteriori informazioni qui, qui e qui) in modo da ridurre o da cancellare i risarcimenti per chi da quell’errore ha avuto la vita rovinata. D’altronde forse c’è da essere contenti dell’operato al governo a livello nazionale, visto che a livello locale le giunte dello stesso colore fanno ben di peggio. È il caso del veneto, un tempo cattolicissimo, ma che della religione deve avere ben perso il senso se si spinge a negare i trapianti a persone che soffrano di danni cerebrali irreversibili o di ritardo mentale (q.i. inferiore a 50, peraltro parametro non proprio affidabilissimo) o che abbiano tentato il suicidio da poco. Una scelta che a essere gentili pone implicazioni bioetiche discutibili. L’attenzione riservata da ultimo ai disabili d’altronde la si può vedere anche nelle linee guida che informano l’azione in campo scolastico, dove è stata dichiarata incostituzionale la norma che portava, tramite l’imposizione di un tetto al numero di docenti di sostegno ammissibili, ad un possibile indebolimento del sostegno agli studenti che soffrivano di un qualsiasi handicap.

Credo che basti la nuda esposizione dei fatti, e nulla più serva a dimostrare quanto tali misure superino l’asta della vergogna, nonostante questa si sia alzata sempre più, giorno dopo giorno, negli ultimi anni, senza quasi che ce ne accorgessimo. Qualcuno diceva che il valore di una società si capisce da come vengono trattati gli ultimi, i più deboli. Se anche non fosse questo basterebbe pensare a quanto questa stessa società si discosti dai valori che continua a ostentare e professare pubblicamente. Per mera incuria probabilmente, e non per diabolici disegni vagamente eugenetici, si è deciso di danneggiare i più deboli tagliando i loro sussidi o i loro risarcimenti o il sostegno che dovrebbe consentire loro una vita normale. Ma basta la direzione del provvedimento a mostrare quanto in basso siamo scivolati e stiamo scivolando.

mercoledì 2 giugno 2010

Panico!


L’immagine forse più adatta per parlare di questi tempi e di ciò che sta avvenendo in Italia è un’immagine vecchia, che risale ai primi tempi della famigerata crisi che un paio d’anni fa sconvolse il pianeta. Quella degli impiegati di Lehman Brothers che mettono tutto negli scatoloni e se ne vanno a casa. O ancora, per citare un’immagine di crisi più tradizionale, le persone in fila a ritirare i propri risparmi da banche sull’orlo del crack. Non che lo Stato italiano sia sull’orlo del fallimento, e di chapter 11 non se ne vede manco l’ombra, ma dopo 2 anni di battute sulla crisi psicologica l’onda lunga, e poco psicologica, sta arrivando, e il terrore che ci sommerga ha portato dalle prime inversioni ad U della maggioranza fino alle sempre più furiose corse degli ultimi minuti e alla manovra da 24 miliardi che dovrebbe portarci ad evitare di fare la fine della Grecia, o, più plausibilmente, ad uniformarci ai nuovi standard di rigore contabile imposti dalla Germania, anche se “Grecia” è la parola più ripetuta a giustificare i sacrifici che ci aspettano, a dire “Visto, bisogna darsi da fare, ché sennò ci tocca fallire”.

Ovviamente se hai due anni di tempo per prendere provvedimenti per ripianare le finanze pubbliche, con un debito pubblico al 110,5%, e ti perdi dietro minchiate sulla crisi psicologica e le intercettazioni, nessuno si aspetta che tu faccia poi miracoli operando in maniera lungimirante ed efficiente. Tuttavia il pressapochismo e l’improvvisazione (da qualcuno ricondotti peraltro a lotte di potere all’interno della maggioranza in ottica di successione a Berlusconi) con cui è stata compiuta questa manovra lasciano stupefatto persino chi non aveva dubbi sulla capacità di operare a casaccio della maggioranza. Un piano dunque che raggiunge perfettamente lo scopo - tagliare, tagliare, tagliare – ma che nel conseguirlo mostra una sostanziale incapacità di seguire un piano razionale. Un piano dettato dal panico, in cui si accumulano proposte assurde (iniziare la scuola a ottobre) e dimostrazioni dell’inottemperanza ad ogni altro criterio che non sia il risparmio, a cominciare dall’idea principale: il blocco degli aumenti salariali dei dipendenti pubblici, ritenuti dei privilegiati perché negli ultimi anni hanno visto aumentati gli stipendi a fronte del fermo di tutti gli altri lavoratori dipendenti. Detta così la questione sembrerebbe giusta ed equa, ma basta ripensare al fatto che i dipendenti pubblici hanno una media di stipendio decisamente bassa, al fatto che quegli aumenti non sono altro che adeguamenti che tengono conto dell’aumento dei prezzi, al fatto che i dipendenti pubblici siano gli unici, o quasi, a non poter praticare lo sport nazionale (evadere) e tutto rientra nella giusta ottica. Un sacrificio imposto a chi già di suo paga per gli altri il prezzo dello Stato, nessun sacrificio imposto a chi vive, e continuerà a vivere, senza pagare le tasse. Un’idea d’altronde ben giustificata dal fatto che i dipendenti pubblici sono una fetta di elettorato certo più vicina all’opposizione mentre gli autonomi e gli imprenditori sono molto più legati a Berlusconi, Padania, Famiglia. Certo, è vero che in un’ottica emergenziale l’evasione non si recupera tutta d’un tratto, ma ciò non giustifica la sonnolenza dei primi due anni di governo, né l’assenza dai disegni del governo di misure in proposito a lunga gittata. Eppure Draghi stesso ha detto che responsabile della macelleria sociale è l’evasione.

Di altre idee, come quelle concernenti il taglio delle province o degli enti inutili, non vi sarà a quanto pare traccia nella versione definitiva. Idee che apparivano certo in linea teorica discretamente sensate, ma che erano state anch’esse applicate grossolanamente e secondo criteri ben poco trasparenti. Viene da chiedersi cosa ci sarebbe stato a fare un ministero dei beni culturali se non lo si fosse consultato in merito alle strutture, spesso importanti, che sarebbero finite sotto la scure di Tremonti. Viene da chiedersi in base a quale criterio (certo non efficientistico, probabilmente politico) sarebbe stato effettuato il taglio delle province, ma su questo ha già largamente scritto Emanuele. Ciò che preme qui sottolineare comunque è il fatto che, oggi come ieri, nessuna attenzione il governo ponga all’equità o a misure lungimiranti (tenendo conto anche del fatto che tra i tanti tagli da effettuare parecchi andavano ad istituzioni scientifiche e di ricerca, alcune irrilevanti, altre importantissime, buttate in un unico calderone). In questa direzione anche l’ennesimo condono –cioè la sanatoria catastale degli immobili fantasma censiti qualche anno fa.
Sul fronte risparmio da segnalarsi ancora la geniale idea di sottrarre una quantità importantissima di fondi ai comuni, già stritolati dalla perdita degli introiti dell’ICI (una tassa la cui reintroduzione sarebbe invece estremamente sensata, rispondendo peraltro perfettamente a criteri di natura equitativa) e dal patto di stabilità, e alle regioni. Quantità tale da far gridare Formigoni alla morte del federalismo, nel silenzio di coloro che invece sarebbero scesi in guerra per la provincia di Bergamo.

Se dunque appare abbastanza sensato ridiscutere e tagliare la spesa pubblica certo la manovra finanziaria appare, non solo limitatamente ai profili sopra brevemente accennati, decisamente poco condivisibile. Poco condivisibile sembra forse agli stessi partiti di maggioranza che hanno parzialmente celato i veri significati della manovra sotto lo specchietto delle allodole dell’etichetta di manovra anti-sprechi, contro gli statali fannulloni e i privilegi della politica (il famoso aperitivo del taglio degli stipendi ai parlamentari).

giovedì 27 maggio 2010

Antipasto



L'Albania - è noto - è un luogo piccolo e bistrattato.
C'è chi si sente europeo e a buon diritto, mentre altri ne colgono appena la necessità.
C'è chi si traveste da liberal, ma non sa, nè vuol nascondere uno spiccato statalismo (auto-)accentratore.
Alcuni vorrebbero non dover scambiare la leggerezza poetica e aggraziata della vita antica con una più profittevole standardizzazione dell'esistenza.
Ad altri interessa solo vomitare caoticamente pensieri pseudo-ermetici che fanno tanto, ma davvero tanto, radical-chic.
Insomma, è un luogo tremendo. Senza contare il ping-pong.

Ma come per tutti i luoghi poco confortevoli, prima lo accetti, poi ti abitui, infine ti ritrovi dipendente, senza poterne più fare a meno.
Diventa un guscio angusto, ma familiare dove rifugiarsi dalla violenza della frenesia del Tempo e dei tempi, dove consegnare timidamente le proprie idee di ribalta a chi abbia anche solo il piacere di accoglierle e la voglia di togliersi lo sfizio di confutarle. Un locus dove sfogarsi, consolarsi, accigliarsi, adirarsi, sorridere, ragionare, "sragionare" insieme.
Anzi, più che un locus, è una camera.

La CamerAlbanese.