lunedì 21 giugno 2010

Quando voi stavate sugli alberi, noi eravamo già froci (cit.)

Tempi di mondiali, tempi di classifiche e di campanilismi. E nella scuola il campanilismo, negli ultimi tempi, è di rigore.

Meno intelligenti al Sud!” recita provocatoriamente (?) Richard Lynn, professore emerito di Psicologia presso l’Università dell’Ulster in un articolo sulla rivista accademica “Intelligence”. La tesi del Prof. Lynn è basata sui test PISA (Program for International Student Assessment), che rilevano dati relativi a diversi tipi di apprendimento da parte degli studenti all'età di quindici anni. L’interpretazione di questi test si basa sulla classificazione dei risultati in Matematica, Scienze e Lettura nei vari paesi dell’OCSE. L’Italia, complessivamente, si colloca in posizioni piuttosto deludenti e rimane sopra soltanto il Messico, la Grecia e la Turchia per tutte le categorie. Nell’ultima edizione è stata data la possibilità di partecipare anche ad alcune sub-categorie (Toscana, Trento e Bolzano tra le altre). Questo ha fatto sì che fossero possibili, per la prima volta, dei confronti fra le aree del paese. I risultati sembrano davvero impietosi per il Centro ed il Sud Italia: la differenza tra le province autonome ed il Sud (con le Isole) è di quasi 100 punti, distanza simile a quella che esiste tra Danimarca e Turchia. Da questo - e solo da questo - il “buon” Lynn, conclude che le differenze dei risultati scolastici sono dovute al “più basso quoziente intellettivo nell'Italia meridionale” a sua volta causato “dalla mescolanza delle persone di queste regioni con popolazioni del Vicino Oriente e del Nord Africa che sono caratterizzate da un quoziente intellettivo più basso”.

Senza voler entrare nel merito della questione genetica che appare, comunque, del tutto sterile, oltre che scientificamente poco fondata, la questione rimane comunque essenziale e ancora poco esplorata. Partiamo da qui. Gli studenti del Nord sono più bravi. Ma, a meno di credere nella motivazione genetica, evidentemente la loro migliore riuscita dipende da alcune variabili esogene che proviamo a raccontare.

L'allievo impara dal maestro. Ovviamente una buona riuscita nei test e a scuola dipende dall bravura degli insegnanti in classe. Questi, ad oggi e forse ancora per poco, sono in parte del Sud. Quanti siano i docenti meridionali di ruolo che attualmente insegnano al Nord non si sa con precisione e la stima è difficile. Ma dalle ultime pubblicazioni sulle graduatorie dei precari si nota che 29 mila docenti "residenti in province meridionali" hanno optato per graduatorie provinciali di città "del Centro-Nord", che contano 70 mila precari. Di contro, gli iscritti in graduatorie del Sud residenti in province settentrionali sono appena 412 su 230 mila posti da supplenti. Senza i 29 mila "terroni" alla ricerca di un posto di lavoro, anche precario, al Centro-Nord rimarrebbero appena 41 mila docenti abilitati all'insegnamento per coprire i posti momentaneamente liberi per assenza del titolare. L'obiezione spesso fornita del ritorno prematuro al Sud degli insegnanti meridionali con cattedra nel Nord Italia è stata di recente sfatata, con buona pace dei ministri Gelmini (che ha poi smentito) e Bossi. Secondo i dati della Fondazione Agnelli, nel 2009 sono stati solo 692 gli insegnanti che dalle scuole del Nord Ovest e del Nord Est si sono spostati in quelle meridionali: si tratta dello 0,5% rispetto al totale. Ci si chiede, dunque, come farebbe la scuola nelle regioni settentrionali senza i docenti del Sud Italia. Un altro mito sfatato.

La legge è uguale per tutti. E i diritti? E' davvero possibile pensare che gli studenti italiani abbiano tutti davvero le stesse opportunità? Non si tratta tanto di discutere del contributo che ogni famiglia è in grado fornire ai propri figli per attività particolarmente costose oppure “superflue”, quanto soprattutto della differenza esistente nel Paese delle aspettative sui diritti essenziali riservati agli studenti e alle rispettive famiglie. Quando negli ultimi tempi si è parlato (e si sono attuati) di alcuni tagli alla scuola come quello del “tempo pieno” ci sono state, infatti, due diverse reazioni: alcuni (al Nord?) si sono sentiti privati di un diritto acquisito, anzi scontato, altri (al Sud?) sono venuti a conoscenza dell'esistenza stessa del servizio. Di fronte a questo imbarazzante confronto e scompenso, è difficile e forse superfluo chiedersi se sia più grave il fatto che lo Stato non sia in grado di garantire condizioni analoghe a tutti i cittadini o la disillusione mista a resa degli abitanti delle regioni del Mezzogiorno che non hanno più la forza di combattere alcuna battaglia sociale, sfiniti come sono da problemi più “immediati”.

Peccato che considerare questo problema un argomento di secondo piano sia una visione miope - per le intelligenze ed il capitale umano non pienamente valorizzati - oltre che bieca - per le differenze nelle opportunità concesse alle nuove generazioni. E questo oltre ogni campanilismo generazionale o regionale. Nonostante il Mondiale.


lunedì 14 giugno 2010

e poi c’era Mengele che incartava la cioccolata…

Probabilmente tutti hanno notato come l’agire efficientista del governo del fare in tempi di crisi segua strade dettate dal vento del nord, dalla pragmatica abilità del lombardo Tremonti e del veneziano Brunetta nel far quadrare i conti, nel tagliare i rami secchi e nel cancellare i segni degli sperperi assistenzialistici, nella lotta ai malcostumi del sud. Un esempio per tutti? Tremonti cita il caso dei falsi invalidi, una vera piaga che le amministrazioni meridionali lasciano correre per motivi clientelari, una cattiva erba da estirpare immediatamente. E subito, come uomo di parola, si mette al lavoro per risolvere il problema nel modo più adeguato possibile al governo che rappresenta. Cioè, mi si scusi la finezza linguistica, ad minchiam. L’esito tragicomico dell’opera del governo, lungi dal prendersela con gli invalidi finti, preferisce penalizzare quelli veri, ché ormai nel prendersela con i deboli il ministero delle finanze è campione, così come nel fermare le sue misure là dove iniziano gli interessi di parte (come nel caso delle province, che nel frattempo continuano a sparire e ricomparire con la frequenza della pioggia pisana).

Per cui, se riuscire a trovare delle misure efficaci contro i finti invalidi appare aleatorio, oltre che contrario agli interessi clientelari di cui sopra, quali saranno i rami secchi da tagliare, quali saranno i privilegiati che dovranno dire addio alle loro fortune e trovarsi finalmente un’attività produttiva, che dovranno insomma darsi da fare?
I down ad esempio! Con l’elevarsi dell’invalidità necessaria per avere accesso all’assegno di assistenza dal 74% all’85% gran parte di questi “finti invalidi” vedrà cancellato il contributo da 256 euro cui aveva diritto (diritto limitato peraltro a coloro che fossero, oltre che malati, anche disoccupati, e avessero un reddito inferiore ai 4408 euro annui). Poiché evidentemente il risparmio non bastava, al ministero si è quindi provveduto a rigirare la ruota ed è uscito il Jolly, numero 66. Come la percentuale di invalidità dei cittadini che a causa di errori medici hanno contratto, a seguito di trasfusioni di sangue infetto, epatiti ed altre gravi malattie. Lo Stato, che di questi errori è indiretto responsabile, riporta i valori degli indennizzi al 1992 e incide retroattivamente sulla prescrizione delle domande (ulteriori informazioni qui, qui e qui) in modo da ridurre o da cancellare i risarcimenti per chi da quell’errore ha avuto la vita rovinata. D’altronde forse c’è da essere contenti dell’operato al governo a livello nazionale, visto che a livello locale le giunte dello stesso colore fanno ben di peggio. È il caso del veneto, un tempo cattolicissimo, ma che della religione deve avere ben perso il senso se si spinge a negare i trapianti a persone che soffrano di danni cerebrali irreversibili o di ritardo mentale (q.i. inferiore a 50, peraltro parametro non proprio affidabilissimo) o che abbiano tentato il suicidio da poco. Una scelta che a essere gentili pone implicazioni bioetiche discutibili. L’attenzione riservata da ultimo ai disabili d’altronde la si può vedere anche nelle linee guida che informano l’azione in campo scolastico, dove è stata dichiarata incostituzionale la norma che portava, tramite l’imposizione di un tetto al numero di docenti di sostegno ammissibili, ad un possibile indebolimento del sostegno agli studenti che soffrivano di un qualsiasi handicap.

Credo che basti la nuda esposizione dei fatti, e nulla più serva a dimostrare quanto tali misure superino l’asta della vergogna, nonostante questa si sia alzata sempre più, giorno dopo giorno, negli ultimi anni, senza quasi che ce ne accorgessimo. Qualcuno diceva che il valore di una società si capisce da come vengono trattati gli ultimi, i più deboli. Se anche non fosse questo basterebbe pensare a quanto questa stessa società si discosti dai valori che continua a ostentare e professare pubblicamente. Per mera incuria probabilmente, e non per diabolici disegni vagamente eugenetici, si è deciso di danneggiare i più deboli tagliando i loro sussidi o i loro risarcimenti o il sostegno che dovrebbe consentire loro una vita normale. Ma basta la direzione del provvedimento a mostrare quanto in basso siamo scivolati e stiamo scivolando.

mercoledì 2 giugno 2010

Panico!


L’immagine forse più adatta per parlare di questi tempi e di ciò che sta avvenendo in Italia è un’immagine vecchia, che risale ai primi tempi della famigerata crisi che un paio d’anni fa sconvolse il pianeta. Quella degli impiegati di Lehman Brothers che mettono tutto negli scatoloni e se ne vanno a casa. O ancora, per citare un’immagine di crisi più tradizionale, le persone in fila a ritirare i propri risparmi da banche sull’orlo del crack. Non che lo Stato italiano sia sull’orlo del fallimento, e di chapter 11 non se ne vede manco l’ombra, ma dopo 2 anni di battute sulla crisi psicologica l’onda lunga, e poco psicologica, sta arrivando, e il terrore che ci sommerga ha portato dalle prime inversioni ad U della maggioranza fino alle sempre più furiose corse degli ultimi minuti e alla manovra da 24 miliardi che dovrebbe portarci ad evitare di fare la fine della Grecia, o, più plausibilmente, ad uniformarci ai nuovi standard di rigore contabile imposti dalla Germania, anche se “Grecia” è la parola più ripetuta a giustificare i sacrifici che ci aspettano, a dire “Visto, bisogna darsi da fare, ché sennò ci tocca fallire”.

Ovviamente se hai due anni di tempo per prendere provvedimenti per ripianare le finanze pubbliche, con un debito pubblico al 110,5%, e ti perdi dietro minchiate sulla crisi psicologica e le intercettazioni, nessuno si aspetta che tu faccia poi miracoli operando in maniera lungimirante ed efficiente. Tuttavia il pressapochismo e l’improvvisazione (da qualcuno ricondotti peraltro a lotte di potere all’interno della maggioranza in ottica di successione a Berlusconi) con cui è stata compiuta questa manovra lasciano stupefatto persino chi non aveva dubbi sulla capacità di operare a casaccio della maggioranza. Un piano dunque che raggiunge perfettamente lo scopo - tagliare, tagliare, tagliare – ma che nel conseguirlo mostra una sostanziale incapacità di seguire un piano razionale. Un piano dettato dal panico, in cui si accumulano proposte assurde (iniziare la scuola a ottobre) e dimostrazioni dell’inottemperanza ad ogni altro criterio che non sia il risparmio, a cominciare dall’idea principale: il blocco degli aumenti salariali dei dipendenti pubblici, ritenuti dei privilegiati perché negli ultimi anni hanno visto aumentati gli stipendi a fronte del fermo di tutti gli altri lavoratori dipendenti. Detta così la questione sembrerebbe giusta ed equa, ma basta ripensare al fatto che i dipendenti pubblici hanno una media di stipendio decisamente bassa, al fatto che quegli aumenti non sono altro che adeguamenti che tengono conto dell’aumento dei prezzi, al fatto che i dipendenti pubblici siano gli unici, o quasi, a non poter praticare lo sport nazionale (evadere) e tutto rientra nella giusta ottica. Un sacrificio imposto a chi già di suo paga per gli altri il prezzo dello Stato, nessun sacrificio imposto a chi vive, e continuerà a vivere, senza pagare le tasse. Un’idea d’altronde ben giustificata dal fatto che i dipendenti pubblici sono una fetta di elettorato certo più vicina all’opposizione mentre gli autonomi e gli imprenditori sono molto più legati a Berlusconi, Padania, Famiglia. Certo, è vero che in un’ottica emergenziale l’evasione non si recupera tutta d’un tratto, ma ciò non giustifica la sonnolenza dei primi due anni di governo, né l’assenza dai disegni del governo di misure in proposito a lunga gittata. Eppure Draghi stesso ha detto che responsabile della macelleria sociale è l’evasione.

Di altre idee, come quelle concernenti il taglio delle province o degli enti inutili, non vi sarà a quanto pare traccia nella versione definitiva. Idee che apparivano certo in linea teorica discretamente sensate, ma che erano state anch’esse applicate grossolanamente e secondo criteri ben poco trasparenti. Viene da chiedersi cosa ci sarebbe stato a fare un ministero dei beni culturali se non lo si fosse consultato in merito alle strutture, spesso importanti, che sarebbero finite sotto la scure di Tremonti. Viene da chiedersi in base a quale criterio (certo non efficientistico, probabilmente politico) sarebbe stato effettuato il taglio delle province, ma su questo ha già largamente scritto Emanuele. Ciò che preme qui sottolineare comunque è il fatto che, oggi come ieri, nessuna attenzione il governo ponga all’equità o a misure lungimiranti (tenendo conto anche del fatto che tra i tanti tagli da effettuare parecchi andavano ad istituzioni scientifiche e di ricerca, alcune irrilevanti, altre importantissime, buttate in un unico calderone). In questa direzione anche l’ennesimo condono –cioè la sanatoria catastale degli immobili fantasma censiti qualche anno fa.
Sul fronte risparmio da segnalarsi ancora la geniale idea di sottrarre una quantità importantissima di fondi ai comuni, già stritolati dalla perdita degli introiti dell’ICI (una tassa la cui reintroduzione sarebbe invece estremamente sensata, rispondendo peraltro perfettamente a criteri di natura equitativa) e dal patto di stabilità, e alle regioni. Quantità tale da far gridare Formigoni alla morte del federalismo, nel silenzio di coloro che invece sarebbero scesi in guerra per la provincia di Bergamo.

Se dunque appare abbastanza sensato ridiscutere e tagliare la spesa pubblica certo la manovra finanziaria appare, non solo limitatamente ai profili sopra brevemente accennati, decisamente poco condivisibile. Poco condivisibile sembra forse agli stessi partiti di maggioranza che hanno parzialmente celato i veri significati della manovra sotto lo specchietto delle allodole dell’etichetta di manovra anti-sprechi, contro gli statali fannulloni e i privilegi della politica (il famoso aperitivo del taglio degli stipendi ai parlamentari).