venerdì 24 settembre 2010

Brevi considerazioni alla riapertura dell'anno scolastico

Una vecchia carcassa rovinata di nave, un vecchio relitto in balia e sotto l’attacco di forze che ne distruggono anche il poco che restava in qualche modo valido. Così appare la scuola italiana alla riapertura dell’anno scolastico, riapertura accompagnata dalle ormai consuete diatribe sullo scadimento dei tempi e dei costumi, sulle scadenti, scadentissime performance degli studenti italiani, cui si aggiungono quest’anno le polemiche per i licenziamenti di massa dei precari della scuola. Aggiungiamoci anche che le sorti della scuola sono un argomento in qualche modo romantico, visto che tutti ci sono passati, tutti la ricordano con un minimo di nostalgia, e moltissimi ne sono direttamente coinvolti, e si potrà capire come l’impatto degli interventi sulla scuola abbia un raggio vastissimo e apra ad un dibattito frammentato e forzatamente generico e qualunquista. Ma anche in questo qualunquismo, come in tanti altri, si ritrovano frammenti di verità.
Innanzitutto sui finanziamenti alla scuola. Troppo, troppo pochi. Così pochi che le scuole private divengono sempre più un’opzione importante mentre il pubblico giace abbandonato nell’incuria, come d’altronde avviene in tanti altri settori vittime di privatizzazioni occulte. La scuola pubblica giace massacrata dai tagli, che non sono solo quelli dei precari, ambito in cui i tagli costituiscono, oltre che un gravissimo problema educativo, un problema del mondo del lavoro e dei suoi meccanismi. Il problema è il mondo che gira intorno agli insegnanti, che vengono a trovarsi in lotta contro strutture inadeguate, fondi inadeguati, burocrazie inadeguate, programmi inadeguati, contro una generale mancanza di consapevolezza del ruolo della scuola in una società che ha dimenticato non il funzionamento ma la stessa esistenza di quegli ascensori sociali di cui la scuola dovrebbe essere la prima promotrice. Si inserisce in questo contesto la dicotomia concernente gli stessi insegnanti, concepiti da alcuni come una categoria di fannulloni che fa tre mesi di vacanze, da altri come degli eroi dei tempi moderni. Probabilmente nessuna di queste due retoriche è del tutto vera, come d’altronde nessuna è del tutto falsa. E’ certo innegabile che essi siano tendenzialmente sottopagati e demotivati dalle stesse difficoltà cui vanno incontro, difficoltà cui parte della categoria risponde con ammirevole dedizione e spirito di sacrificio, difficoltà cui l’altra parte si arrende, né in questo aiutano l’età media o l’assenza di una qualsiasi forma di meritocrazia. In realtà pare che su questo batta forte il martello del ministro Gelmini, che intende sopperire ai tagli con la valutazione degli insegnanti. Eppure questo appare uno strumento quantomeno inutile. Da un lato sembra quantomeno ingenuo pensare che premiare i migliori possa rendere migliore un sistema del tutto inefficiente a causa di ben altri problemi, a partire dalle classi troppo numerose e dalle strutture fatiscenti. Dall’altro il problema non è un problema italiano: è un problema, è una questione, ancora una volta, eminentemente meridionale. I dati dei test, a partire da quello OCSE-PISA, sono eloquenti: mentre il centro-nord si colloca su livelli medi, non tra i migliori in Europa ma nemmeno tra i peggiori, a sud di Roma i risultati hanno un che di ignominioso. E tale ignominia deriva dal contesto socio-culturale che si vive al sud, di livello estremamente più basso, perché più povero di possibilità e arretrato. Non che al sud manchino situazioni di eccellenza, ma sono molto di più le zone di frontiera in cui gli studenti arrancano, figli come sono di un humus estremamente meno ricco, provenienti da famiglie poco abbienti, che non possono dotarli di strumenti e che forse non sono nemmeno propense per mentalità a motivarli. Questi ragazzi molto spesso vanno a finire nelle fila dei dispersi scolastici, e l’esito ulteriore è la sempre più ingrossata massa di giovani che non studiano, non lavorano, non cercano lavoro, se non il nero o la criminalità. In questi contesti i non radi eroismi di insegnanti spesso giovani e motivati servono a poco o nulla, mentre l’incuria la fa da padrona. In questi contesti la scuola pubblica abdica al suo ruolo primario, quello di livella (verso l’alto ovviamente) delle situazioni sociali, quello di sostrato comune che dovrebbe consentire a tutti di partire con le stesse opportunità. Al sud la scuola ha una funzione ancor più fondamentale, e così l’insegnante ora abbandonato a se stesso (quando non attaccato). È spesso alternativa e possibilità unica di riscossa. Forse sarebbe opportuno ripartire da qui, da una scuola che serva da trampolino e da ancora per migliaia di persone e per dei territori che rappresentano, a conti fatti, un buon terzo d’Italia.