sabato 10 luglio 2010

Un Abete con le radici solidamente piantate sulla poltrona

Se è vero che la nazionale di calcio è una delle poche cose che unisce gli italiani e li fa sentire insieme sotto un’unica bandiera (con buona pace di radio padania che sosteneva il Paraguay, chissà se avrebbe fatto lo stesso qualora avessimo giocato contro Romania o Marocco) si può a buona ragione dire che l’eliminazione dell’Italia dai mondiali che stanno volgendo al termine è stato un avvenimento in qualche modo traumatico, Dopo essere stati sul tetti del mondo quattro anni fa siamo stati sbattuti fuori nel primo girone da una squadra di semiprofessionisti come la Nuova Zelanda (imperdibile la telecronaca del sorteggio mondiale con un Caressa che si sbellicava al solo pensiero) e da due compagini certo non irresistibili quali Slovacchia e Paraguay. Ma di chi è la responsabilità di un disastro tanto immane (l’ultima volta che non avevamo passato il girone era nel 1974)? Le maggiori responsabilità si sono appuntate ovviamente sul commissario tecnico, che si è assunto tutte le responsabilità (suona strano che suoni strano farlo notare) pur avendo indubbiamente alcune esimenti. Senza voler giustificare gli errori commessi sul campo, nella preparazione e nella gestione delle partite, non si può non notare come il calcio italiano (e lo sport italiano in generale, a parere dello scrivente) non stia attraversando un momento roseo, soprattutto a livello tecnico e di produzione di talenti. Si fatica a ricordare una nazionale dalla qualità così bassa e in generale una così grande assenza di giocatori di livello assoluto nati entro i patrii confini. Sarà un caso se la squadra campione negli ultimi quattro anni d’Italia e quest’anno anche d’Europa conta i suoi italiani sulle dita di una mano? Bisogna forse risalire agli anni ’50 per trovare un momento altrettanto nero. Ma è solo un caso questa situazione di crisi, ed è una situazione che coinvolge solo la nazionale, o c’è dell’altro? Per saperlo basta scuotere leggermente i rami più alti dell’albero, e venire ad analizzare le responsabilità di quelli che sono i vertici più alti del nostro calcio.

Scorrere la carriera ed il cursus honorum dell’attuale presidente della FIGC Giancarlo Abete è un’emozione che non si interrompe. Deputato dc per tre legislature dal 1979 (a 29 anni, poi si lamentano della gerontocrazia…) al 1992, da circa 20 anni sul ponte di comando della stessa FIGC, ha rivestito numerosi incarichi anche in altre associazioni, tra cui CONFINDUSTRIA. Abete, riconfermato nonostante il fallimento mondiale in seguito al Consiglio Federale del 2 luglio scorso (mentre in Francia, in seguito ad identico fallimento, rotolavano teste), è asceso alla presidenza della Federazione nel post-calciopoli, e certo non si è distinto per i grandi risultati e per la grande efficienza organizzativa. Glissando sulla gestione discutibile (per usare un eufemismo) della stessa calciopoli (o moggiopoli per gli appassionati del fantasy) e della giustizia sportiva in genere, non si può non ricordare come l’Italia sia stata umiliata avendo fallito per due volte nel presentare la propria candidatura per l’organizzazione dei Campionati Europei di Calcio: nella prima occasione battuta da Polonia e Ucraina (Nazioni non di primissimo piano né quanto a tradizione calcistica, né sul piano economico-organizzativo, tanto che più volte si è paventato il rischio che i lavori non finiscano in tempo), la seconda poche settimane fa quando la nostra candidatura per gli Europei del 2016 ha preso meno voti di quelle di Francia (che si è aggiudicata l’organizzazione) e Turchia. E questo non per fantomatici complotti massonici e anti-italiani ma per i seri problemi del nostro movimento, a partire da quelli di ordine pubblico per finire alle carenze strutturali (peraltro in Italia non brilliamo certo per trasparenza e abilità di gestione di affari edilizi, ma questa è un’altra storia, che però non dubitiamo sia stata tenuta in considerazione nel momento di fare la scelta). Aldilà di queste mirabolanti imprese anche la gestione della preparazione del mondiale sudafricano non ha brillato, cominciando dalla scelta di Lippi per rimpiazzare un Donadoni scaricato e maltrattato ben oltre i suoi demeriti e finendo con la geniale idea di annunciare già prima della partenza che Lippi se ne sarebbe andato e chi sarebbe stato il suo successore, cosa che non ha certo contribuito a motivare i giocatori (di cui peraltro non si può dire che siano scesi in campo con il coltello fra i denti e i classici occhi di tigre), così come la stupidissima polemica sui premi. Cosa resta dunque della gestione Abete? Un movimento calcistico in affanno, un po’ per motivi di concorrenza, un po’ per motivi di crisi del sistema Italia in genere, molto per motivi di gestione interna: società poco competitive (salvo rade eccezioni) fuori dai confini nazionali, come simboleggiato dall’ormai prossima perdita del terzo posto nel ranking fifa, giocatori di livello inferiore rispetto anche a pochi anni fa (basti a dimostrarlo il dominio avutosi fino al 2004 a livello di under 21 e la crisi odierna, dovuta anche a scelte discutibili a livello di coaching staff), un campionato decisamente in affanno a livello di spettacolo e visibilità fuori dai nostri confini, una inesistente politica di tutela dei vivai cui si tenta di porre rimedi inutili o dannosi. In questo senso l’ultima genialata è stata la riduzione del numero di stranieri extracomunitari ingaggiabili per stagione, cambiamento di regolamento avvenuto a mercato in corso, regola che nel tutelare i nostri giocatori fa acqua da tutte le parti da un lato perché restano ingaggiabili stranieri comunitari e extracomunitari con passaporto comunitario (categoria quest’ultima molto più ampia di quanto si potrebbe pensare) dall’altro perché misure simili raramente hanno sortito effetti e difficilmente si può dire che il problema del calcio italiano sia l’eccesso di stranieri. La regola è invece perfetta per abbassare il livello delle nostre squadre di club e la competitività del campionato, ed in questo senso è anzi controproducente, dato che se il livello a cui giocano i nostri giocatori è più basso darà più difficile che si impongano all’estero. Un capolavoro insomma.

In definitiva è vero anche che alcuni di questi problemi potrebbero essere visti, e in parte lo sono, come questioni congiunturali. È altrettanto vero però che il calcio italiano sembra soffrire degli stessi problemi del sistema Italia in genere, partendo dal poco spazio lasciato ai giovani e finendo ad una crescente incapacità di rinnovarsi e innovare per essere competitivo, e che una governance che lascia parecchi dubbi e l’inamovibilità degli organi di vertice difficilmente consentiranno particolari cambiamenti di rotta.

domenica 4 luglio 2010

Si al bavaglio!

Dedicato a tutti quelli che Berlusconi non vince per lo strapotere mediatico e che delle televisioni non se ne fa niente perchè certe cose ormai le sanno tutti, dedicato a tutti quelli che la rai è di sinistra e comunque mantiene sempre una sua imparzialità, dedicato a tutti quelli che credevano fosse stato già toccato il fondo:

Rai due sul consigliere provinciale "dell'opposizione" sorpreso a "fare come Marrazzo":



Il direttore di Studio Aperto "riflette" sui casi Dell'Utri e Tartaglia e ci esprime i suoi dubbi:



Il tg1 sulle intercettazioni, 1:



e 2: